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Maldini: “Da dirigente ho cercato di stare vicino ai giovani, le proprietà straniere non conoscono questo argomento. Non si spiega con Excel”

Ad un anno dal suo addio al Milan, Paolo Maldini ha concesso una lunga intervista al podcast AKOS – Storie di Sport. Dalla sua carriera fino al ruolo di dirigente, passando da quello che gli ha regalato il calcio e come l’ha vissuto. Queste le sue parole:

Sulla carriera: “Non lo considererei un percorso monotono, ma anzi pieno di alti e bassi e pieno di soddisfazioni. Fatto al massimo livello. Credo che la fortuna di un calciatore che gioca in una squadra sia quella di trovare un club che abbia le tue stesse ambizioni e che abbia comunque la possibilità di farti arrivare al tuo livello massimo. Io ho avuto la fortuna di avere talento e una squadra che mirava ai massimi obiettivi: questo credo che sia stato il segreto numero uno per poter fare una carriera così lunga all’interno di un club. Ho iniziato a 10 anni nel Milan, non era tardi, era il minimo perché sotto i 10 anni non potevi essere tesserato. Negli anni precedenti giocavi all’oratorio, ai giardinetti, facevi tecnica in un’altra maniera. Poi dopo quando lo hanno fatto i miei figli le regole sono cambiate, Christian ha iniziato a 8 anni e Daniel a 6-7”.

Sul padre Cesare e gli esordi: “Quando mio padre allenava la Ternana, il Parma, il Foggia si è sempre spostato in maniera assolutamente autonoma, anche perché poi siamo 6 fratelli, eravamo tutti abbastanza piccoli. La carriera da allenatore è fatta di momenti e, quindi magari ti prendono a Parma e dopo 6 mesi ti mandano via quindi non è la certezza di rimanere a lungo tempo quindi non conviene assolutamente spostare la famiglia. Tra l’altro tutti andavamo a scuola, tutti avevamo le nostre attività pomeridiane e di conseguenza sarebbe stato veramente impossibile. Io mio papà non l’ho mai visto giocare, ha smesso nel 66-67 e io son nato nel ’68. Quando si fanno comunque paragoni tra le varie ere è difficile riuscire a inserire un un ragazzo che magari gioca negli anni 2000 negli anni ’60 o viceversa. Credo di aver avuto la fortuna di iniziare negli anni ’80 dove c’era comunque un certo tipo di educazione, un certo tipo di valori che poi mi sono portata avanti per tutta la carriera. Poi la conoscenza della specificità dell’allenamento, della tecnica, della tattica e della preparazione fisica negli anni ha avuto un’evoluzione enorme nel calcio. Grazie a Dio ho avuto grandissimi allenatori e grandissimi preparatori che hanno aperto un pochino la strada anche a una sorta di professionismo un pochino più di alto livello nel mondo del calcio”.

Sul calcio di una volta e cosa è cambiato adesso: “Nei primi anni non c’erano tanti video tu andavi praticamente l’unica possibilità di essere trasmesso live sulla Rai, perché allora c’era la Rai, era quella di giocare il secondo tempo della partita di campionato scelta la Rai o la partita di Champions League, che si chiamava Coppa dei Campioni, il mercoledì sera. Tu non avevi la possibilità di conoscere le caratteristiche dell’avversario se non attraverso degli uomini della società che andavano a vedere le partite, ma erano tutte cose raccontate. Io non credo che ci fosse meno professionalità, c’era meno conoscenza e meno strumenti per rendere quel tipo di sport più professionale, non come impegno ma proprio come conoscenza”.

Sulle giovanili e gli esordi: “Ma innanzitutto, soprattutto in certe squadre, e il Milan era una di queste, gli anni di giovanili erano improntati sulla l’acquisizione di capacità tecniche, quindi si cercava di fare molta tecnica, pochissima tattica, poi lo sviluppo anche di certe situazioni che si incontravano in campo, l’uno contro uno sia in attacco che in difesa. Io ho iniziato giocando da ala destra e ala sinistra per poi dopo verso i 14 anni retrocedere a retrocedere a terzino destro. Praticamente l’ultima parte delle giovanili nella Primavera giocavo da terzino destro. Io credo che sia comunque uno schema che funziona ancora oggi, anche se si tende a dare più nozioni tattiche a ragazzi che sinceramente hanno bisogno di sviluppare tutt’altro. Hanno bisogno di sviluppare la tecnica, la capacità di scelta, quindi non essere indottrinati da allenatori che pensano di essere preparati ma alla fin fine sono molto meno visionari di ragazzi che hanno quel talento che magari loro non hanno mai avuto”.

“Di conseguenza io preparerei – continua – i ragazzi a un altro tipo di di calcio, non assolutamente tattico, perché poi la tattica ha un’evoluzione sempre nel tempo che più si va avanti e più è veloce: di conseguenza probabilmente li stai preparando a qualcosa che sarà già vecchio quando arriveranno in prima squadra. Mentre certi principi di tecnica e di gioco, uno contro uno in fase difensiva e offensiva rimarranno invece sempre attuali”.

Sui tipi di allenamenti: “Naturalmente ci sono altre cose da fare, anche il lavoro fisico è diventato importante, e una preparazione dei ragazzi alla competizione con gli uomini a un certo punto della crescita io credo che vada fatta. Ma ripeto, quel tipo di idea secondo me ti permette di avere una base per imparare le altre cose, dal mio punto di vista è impossibile cambiare l’attitudine, anche se la puoi migliorare, ma soprattutto la mentalità di un giocatore che non ha mai ritenuto importante un uno contro uno in fase difensiva e offensiva o un certo sacrificio ma che ha avuto solamente nozioni o buona parte di nozioni che sono solamente tattiche, fare questo switch da adulto, ormai sei abituato a quello standard. Cambiare rotta dal punto di vista dell’attitudine è difficile”.

Su Liedholm: “È stato fondamentale perché era un allenatore molto moderno, eravamo una delle poche squadre che giocava coi 4 difensori in linea senza seguire l’uomo per tutto il campo già negli anni ’80, pensava già ai giocatori col piede invertito, a volte invertiva il terzino destro con il terzino sinistro. Io sono un destro naturale che si è adattato a giocare a sinistra, e la possibilità di andare all’interno mi apriva più il gioco rispetto a un terzino sinistro che va solo sulla sinistra. La mia parte debole era solo a sinistra e ci ho lavorato, ma anche in fase difensiva, in genere quando ti vengono all’interno fai fatica ma per me quella era la parte più forte. La sua visione e il suo coraggio di mandare in campo ragazzi giovani lo ha reso un precursore nel mondo del calcio. E poi, io lo racconto sempre, lui ti diceva sempre di non dimenticare mai che il calcio è un gioco, e che dovevi giocare per divertirti. Ed è una cosa che va ripetuta a tutti, dai ragazzi che iniziano a giocare ai professionisti”.

Sull’era Berlusconi: “Milanello è stato costruito negli anni ’60, già allora era il primo centro al mondo, e il Milan è stata una delle prime squadre che ha creduto in un centro sportivo: non era come adesso ma già ai tempi c’era l’idea di un luogo chiuso, isolato e dedicato. Quando è arrivato Berlusconi ha trovato una squadra che lottava per le prime posizioni con una delle difese più forti di tutti i tempi. Lui ha portato un’organizzazione aziendale che ha elevato tutto e tutti al massimo livello, sia dal punto di vista calcistico che da quello organizzativo e di rispetto dei ruoli“.

“La sua prima scelta, quella di chiamare un allenatore visionario come Sacchi, ha aperto il mondo del calcio ad altri mondi: sono arrivati preparatori dall’atletica come Pincolini, Mario Ruggiu che era un fisioterapista che aveva fatto atletica. Quindi come ho detto prima le varie conoscenze si sono unite. Io credo che dopo un anno, diciotto mesi, anche loro si sono dovuti adattare ad uno sport diverso ma hanno visto i risultati. Sacchi era un allenatore faceva lavorare tantissimo fisicamente, ed è il segreto delle squadre vincenti: quando lavori più degli altri hai dei vantaggi. E siccome c’era meno conoscenza, credo di essere andato io e i miei compagni quasi sempre in over-training. Avevo 20 anni, pensandoci adesso non si conosceva l’importanza del riposo, del giorno di scarico: hai abituato la tua testa a soffrire sempre, avevi alzato il livello, ma dal punto di vista fisico avevi alti e bassi. Spesso arrivavi in campo che non avevi la gamba giusta: non è un caso aver vinto solo un campionato in quattro anni parlo dell’era Sacchi, anche se eravamo focalizzati sulle coppe europee, non dico che a un certo punto decidi dove andare, ma se devi mettere più forza in una finale piuttosto che in due partite di campionato, lo fai“.

Sulla differenza con Capello: “Il numero di allenamenti era uguale, erano però più lunghi (2 ore, 2 ore e mezza in campo). Prima non esisteva la mezz’ora prima dell’allenamento, adesso è un’ora due tre prima, quindi la prevenzione si faceva in campo, adesso la fanno da soli. L’intensità era sempre massimale, martedì mercoledì giovedì spesso facevamo doppio mercoledì e doppio giovedì con due doppi allenamenti a settimana. Una cosa che adesso è rara. Erano delle prove, una sperimentazione basata sul principio del lavoro, ma dal punto di vista fisico a volte non avevamo performance personali ottimali. Ricordiamoci che si parla di 35 anni fa, essere precursori 35 anni fa ti ha portato a fare degli errori ma all’interno di questi errori facevi qualcosa che ti elevava. Gli altri non è che non facevano niente, ma facevano cose diverse. Noi mischiavamo i 1000, 2000, 3000, forza, salite, era molto dura. Sviluppi determinate cose, poi Sacchi non era mai stato un calciatore di alto livello, quindi la percezione di quello che c’è bisogno non ce l’aveva faceva più fatica rispetto a Capello che poi è arrivato e ha ridotto le ore di allenamento, tenendo un’intensità molto alta perché lui sapeva che il venerdì e il sabato dovevi fare delle cose molto leggere e basate sulla reattività, esplosività. Sperimentando quelle cose lì si è raggiunta un’ottimizzazione del lavoro stesso. Devo dire che il Milan ha sempre avuto questa idea di cercare qualcosa di diverso: nel 2002, dopo due tre anni di livello medio, la società ha cercato quattro ragazzi usciti dall’università, che sembravano più pronti per venire e impostare un lavoro diverso. Sono arrivati questi quattro ragazzi che ci hanno dato un boost enorme a livello fisico, di prevenzione e di individualizzazione del lavoro, importantissimo. Avevamo giocatori di 35 anni come me e giocatori molto giovani, io ne avevo 39 e Pato 18 ad esempio: è anche impossibile pensare di allenare tutti alla stessa maniera. Anche per infortuni vari e per ruolo. Se tu giochi terzino o centrale, gli allenamenti e la fatica sono diversi. La corsa del laterale è una cosa completamente diversa dal centrale. Ti devi anche allenare in maniera diversa”.

Su Franco Baresi: “Franco ha smesso nel 95, una attenzione così spasmodica non c’era ancora ma senza dubbio è stato un un grande esempio per me. Io avevo un carattere molto riservato e quindi era perfetto come lui si comportava dal mio punto di vista, poche parole tanti fatti. Ma così era Mauro Tassotti, con un carattere diverso, così erano tanti giocatori come Evani, Icardi. Diciamo che all’interno di quelle squadre c’erano giocatori molto divertenti, coi quali divertirti, e giocatori con una mentalità vincente: quindi stava a te giovane capire quale gruppo seguire. Poi le squadre sono fatte di tante personalità diverse tra di loro, quindi all’interno di un gruppo di calciatori che raggiunge un numero attorno ai venticinque c’è un pochino di tutto”.

Su Van Basten e Ronaldo il Fenomeno: “Senza gli infortuni Van Basten sarebbe stato l’attaccante più forte di tutti i tempi? Beh già lo si può considerare. Marco al di là dei numeri, del fatto che potesse calciare di destro e sinistro, del fatto che era alto 1,88, che fosse veloce, che fosse cattivo, poi aveva anche questa capacità di essere bello nei suoi gesti tecnici. Marco già con quello che ha fatto, ha smesso a 28 anni praticamente, è da considerare tra i primi cinque attaccanti di sempre. Quello che aveva Ronaldo, che sinceramente non aveva quasi nessuno, o perlomeno quando un giocatore aveva quel tipo di velocità di impatto fisico non aveva la tecnica di Ronaldo… sinceramente riusciva a fare determinate cose con una velocità che nessun altro aveva e quindi abbinava controllo fisico, velocità e forza a una tecnica che era sinceramente in quei 3-4 anni lì era straordinaria”.

Sugli infortuni: “Ho sempre avuto un pochino di fastidio ai rotulei, come poi i miei due figli sono cresciuto in un’estate, classica cosa che poi ti porti dietro. Nell’82-83 c’erano pochi strumenti per migliorare. Io ho iniziato a fare lavoro in palestra serio nel 98-99, quindi a 30 anni, prima la palestra mai toccata. Noi fino agli anni 2000 non abbiamo praticamente mai usato la palestra. Facevamo tutto con salite, discese, bosco, balzi. Si usava veramente poco. Poi naturalmente la conoscenza ci ha portato a capire, io a 30 anni mi sentivo come se mi mancasse benzina e nel momento che ho toccato la palestra, la forza sono esploso ancora fisicamente in maniera impressionante”.

“I miei migliori anni a livello personale dal punto di vista tecnico e fisico sono stati nel 2002-2003 e 2003-2004, avevo 35 anni e sinceramente me la giocavo in velocità con qualsiasi giocatore dal punto di vista anche della tenuta, ho giocato sempre, tecnicamente e a livello di personalità ero meglio che a 20 anni. Quando si sa che l’uomo verso i 30 anni perde un po’ di forza, devi integrare con un lavoro diverso e questo è quello che è successo. Era sbagliato non fare niente prima, ma non lo sapevamo. Cartilagini? Certi lavori possono determinare questo problema ma secondo me il mio problema è dovuto al fatto di aver giocato così tanti anni da professionista, 1,87-88 per 87 chili avevo grandi esplosività, facevo delle grandi frenate, non è poco… avevo una struttura muscolare molto forte e le mie caratteristiche erano quelle del velocista che inchioda e riparte. Questo sulle articolazioni non fa benissimo. Io ho fatto il ginocchio destro e sinistro a distanza di due anni l’uno dall’altro. E ai tempi si facevano ancora le microfratture: con le nuove tecniche avrei forse avuto meno problemi nel post carriera se fossi riuscito a mantenere un po’ di spazio nelle ossa per buttar dentro qualche prodotto che mi avrebbe dato sicuramente un sollievo”.

Sulle tre ere del Milan e come è cambiato il club: “Io ho iniziato con il Milan che aveva due massaggiatori, un dottore, avevamo più o meno 15 fasce riutilizzabili che si estendevano per chi aveva problemi alle caviglie. Io avevo molti problemi alle caviglie, avendo i piedi all’indentro e avevo molte distorsioni, ma era un problema comune quindi capitava di prendere la fascia più brutta. Poi con Berlusconi sono arrivati i prodotti usa e getta, sono arrivati più massaggiatori, più dottori, il dietologo, altre figure professionali tipo lo psicologo o i preparatori: un gruppo di 10-15 persone. Adesso il gruppo dell’area medica è formato da circa 30-35 persone: sono 7-8 fisioterapisti, più qualche consulente esterno, più 2-3 medici che girano, giustamente non dico che sia esagerato, c’è grande attenzione sulla salute dei giocatori, gli asset del club. Quasi ogni calciatore ha un fisioterapista o un dottore privato ma ci devono essere delle regole. Ci deve essere un lavoro di squadra, non puoi fare un lavoro con un tuo fisioterapista senza avvisare il capo dell’area medica perché dopo scompensi. Soprattutto se si tratta di recupero dagli infortuni: se c’è un lavoro da fare si può fare all’esterno dalla struttura, ma si deve fare seguendo quelle che sono le indicazioni del chirurgo che ti ha operato o del dottore che ti sta curando”.

Sugli allenamenti con Capello e Ancelotti e le differenze con Sacchi: “Era più o meno simile, ma c’è sempre da considerare le varie stagioni, cioè quando giochi la Champions League fino alla fine non hai praticamente mai tempo per riposare, quindi quello che cambia è forse la gestione del tempo libero. Dare importanza al riposo credo che sia stata una cosa fondamentale soprattutto nell’era di Ancelotti. Secondo me il segreto è richiedere tanto, ma dare anche tanta libertà dopo: giorni liberi, dare la possibilità di recuperare. Mi hanno sempre chiesto cosa facessi io durante le vacanze, perché ti danno dei programmi da seguire, tra una stagione e un’altra. Credo che il calcio sia l’unico sport che si gioca per 11 mesi, a volte anche 11 mesi e mezzo. A dire la verità io non ho mai fatto niente perché il mio corpo necessitava di riposo. L’unica stagione in cui ho fatto qualcosa è stata nel 1996 quando è nato mio figlio e avevo fatto l’Europeo in Inghilterra, ho fatto 15 giorni di lavoro e sono arrivato il primo giorno di ritiro che non stavo in piedi. Alla fine la mia grande forza era quella di riuscire a resettare tutto, a pensare alla vacanza, non pensare alla stagione appena trascorsa e neanche a quella che sarebbe arrivata e avere un recupero fisico e mentale di un certo livello”.

Sulla differenza tra calcio e basket: “Innanzitutto ci sono state stagioni in cui ho avuto 5, 7, 8 o 9 giorni di vacanza, praticamente niente. Infatti si è saputo dopo che tutti quelli che dopo una stagione hanno avuto meno di 20 giorni di vacanza, si sono fatti male dopo un mese, un mese e mezzo e questo è un classico. Poi, a differenza dell’NBA, con tutto il rispetto, le partite sono sempre al coperto e quelle della regular season sono molto tranquille (i primi tre tempi gigioneggiano, poi vogliono vincere). I play-off sono un’altra cosa. Noi facevamo 5 giorni di allenamento, poi prendevamo l’aereo per gli Stati Uniti e andavamo a giocare contro il Real Madrid o il Manchester, con 80 mila spettatori e 40 gradi, l’impatto di giocare all’esterno in inverno o in estate è pazzesco. Ci sono tante differenze, il problema è che il calcio va sempre più verso stagioni strapiene di appuntamenti e si richiede sempre il massimo spettacolo. È praticamente impossibile”.

Sui ritmi del calcio e le differenze tecniche: “Si andava veloci. C’era meno preparazione fisica, ma si era molto più diretti. Adesso è un gioco molto più di possesso palla, molto meno impegnativo fisicamente. Dal punto di vista fisico, ho giocato negli anni ’80 con dei giocatori che adesso sarebbero top mondiali al 100%: i tre olandesi, Baresi, tanti che hanno giocato con me. I ritmi di oggi diversi rispetto a prima? C’era un gioco più diretto, più difficile, con distanze molto più lunghe, molto dispendioso. Dal punto di vista fisico, gli atleti di quegli anni lì oggi farebbero la differenza. Oggi c’è sicuramente molta meno tecnica, quello sì. Una volta per arrivare a un certo livello dovevi avere tanta tecnica, adesso basta essere un atleta di alto livello, soprattutto se giochi sulle fasce e soprattutto nelle squadre che giocano con 5 difensori, quindi con gli esterni che devono correre. Solitamente hanno una tecnica di base normale, ma corrono e fanno la differenza.Negli anni ’80 il Milan è stata la prima squadra che ha avuto quel tipo di giocatori. I tre olandesi erano tutti 1,90, la palla in profondità su Gullit… oggi farebbe i buchi su tutte le difese del mondo. Erano giocatori fisicamente pazzeschi”.

Sui momenti no: “Li ho dovuti gestire da solo, se non con l’aiuto della mia famiglia. Quando ho fatto il dirigente, avendo avuto 25 anni di esperienza e ricordando molto bene quello che ho provato nei momenti difficili che sono stati tanti, ho cercato di mettere a frutto questa esperienza e cercare di supportare quelli che sono ragazzi molto giovani (19, 20, 21, 22, 23, 24 anni). Ancora senza una struttura vera e propria per affrontare determinati pesi che ti porti dietro facendo questa professione. Si vede sempre la cosa bella, ma non si vede il punto di vista della pressione. Secondo me c’è ancora molto da lavorare lì ed è ancora un terreno inespresso, perché le tante proprietà straniere non conoscono bene l’argomento e non vogliono neanche affrontare quel tipo di problema perché non hanno neanche gli strumenti per poterlo fare. Sappiamo benissimo qual è l’importanza di un supporto, anche a livello morale ai giocatori, sia prima che dopo le partite che durante gli allenamenti, è anche importante vedere come si allenano per riuscire a capire con hi stiamo parlando. Dico sempre che sono cose non tangibili, ma che fanno le fortune dei club. E le cose non tangibili, difficilmente si possono spiegare in un foglio Excel ai nuovi proprietari, sono fuori dalla portata o dalla possibilità di controllo di un proprietario. Sembra che tu abbia una formula magica, ma non lo è, è qualcosa che ti ha portato ad avere successo se lo hai avuto. Successo non vuol dire solamente vincere, vuol dire anche cercare di fare il massimo delle tue possibilità”.

Sul lavoro: “Senza saperlo mi sono fatto gli anticorpi, perché il fatto di non anche solamente il fatto di non fare niente durante l’estate, anche se mi dicevano devi lavorare, io non facevo niente e così facendo il mio corpo si sanava un pochino. Poi cosa facevo, ripartivo e nella pre stagione sapevo che avrei sofferto più degli altri ma lì sviluppavo la capacità di soffrire e comunque di reagire. Perché poi comunque dopo cinque giorni dovevo andare a giocare contro il Manchester ad esempio, e io non voglio perdere. Ho cercato a volte anche involontariamente delle contromisure a questi problemi che uno deve affrontare. Non c’era neanche tanta attenzione verso questo tipo di cose, tu eri un giocatore dovevi fare quello che ti dicevano e basta. Poi l’individualità del calciatore era un po’ sottomessa a quella che era l’importanza della squadra: io dico sempre che la squadra è più importante del calciatore singolo, ma le individualità difficilmente venivano fuori come vengono adesso”.

Sulla figura del padre allenatore: “La cosa magari più fastidiosa era soprattutto quando uno è un ragazzo, quando andavo a giocare nei vari campi dell’hinterland milanese sinceramente sentivo quello che dicevano, quello ti dà fastidio. A me non fregava niente, io volevo giocare e divertirmi ma avevo già una pressione che non doveva esserci sinceramente. Poi lì dipende sempre dal tuo carattere puoi reagire in maniera positiva che ti impegni ancora di più o puoi anche mollare, sinceramente dipende molto molto da te. Quello sicuramente influisce sul tuo carattere perché ti fa diventare magari più riservato perché devi sei sempre attento a quello che gli altri dicono… poi grazie a Dio col tempo questa cosa passa. Io sono andato in U21 quando c’era mio papà, ma la gente non dice che mi aveva già chiamato Vicini nell’U21 quella di Vialli e Mancini. La stessa cosa in Nazionale, mio papà è arrivato in Nazionale quando io ero già capitano ed era già 10 anni che ci giocavo, quindi questa cosa era più giornalistica che basata su fatti reali”.

Su Maradona: “Aneddoti ce ne sono tanti. Innanzitutto parlavamo prima di grandi calciatori, considero i due calciatori più forti mai affrontati da me proprio Ronaldo il brasiliano e Maradona per motivi abbastanza simili: tecnica, velocità, capacità di far gol, capacità di metterti in difficoltà e di stravolgere diciamo quelle che sono le tattiche della partita quindi quando arrivava la palla a loro potevi essere attento ma quando ti saltano due o tre uomini poi c’è poco da fare… Quello che aveva naturalmente Maradona era questa capacità di trascinare comunque un popolo, una squadra e una città verso qualcosa di straordinario: lo ha fatto a Napoli. Come con Ronaldo, era un giocatore che veniva picchiato molto, probabilmente in quegli anni lì ancora di più perché gli anni ’80 erano molto più duri rispetto agli anni ’90. Ma non ha mai reagito, non ha mai detto niente, non è mai andato veramente oltre quelle che erano le lamentele classiche, normali. Sinceramente questo lo ha reso anche nei confronti degli avversari un giocatore da rispettare sempre. Poi le sue capacità balistiche, tecniche, fisiche (perché fisicamente era veramente un animale) l’hanno reso quello che che poi è stato quindi uno dei tre migliori calciatori di sempre. Poi tra l’altro simpatico fuori dal campo e simpatico in campo nonostante le le botte che prendeva riusciva a fare la battuta sempre senza distogliere la sua attenzione da quello che era l’obiettivo, lui voleva vincere. Poi era un grande amante del pallone: la mia passione più grande è la palla e lui era amante della palla. Con tutti i suoi problemi perché poi è un ragazzo che ha avuto tanta pressione, tanti problemi di droga e che non è stato aiutato, che è stato abbandonato. La vita di questi personaggi qua è una vita molto solitaria perché non ti fidi più di nessuno, hai pochi amici veri e molte persone sono attorno a te per per sfruttarti. Questo è sempre il lato oscuro della carriera di un atleta di alto livello. Essere sempre al centro dell’attenzione è una cosa che non auguro a nessuno, perché ha dei lati positivi ma uno come Diego non poteva fare neanche un minuto di vacanza da solo e questa è una cosa che sinceramente determina tanti meccanismi che poi ti portano ad avere grossi problemi”.

Sulla notorietà: “Io di mio sono comunque riservato, la notorietà va accettata ma la vedo quasi come una un effetto collaterale della mia carriera. Dopo il mondiale ’90 che il mondiale è veramente il punto massimo visto che è stato giocato in Italia, ho deciso di andare in vacanza negli Stati Uniti e dal 1990 faccio le vacanze negli Stati Uniti. Era diventato veramente difficile per me godermi quei 15 giorni di tranquillità senza parlare di calcio. Il calcio è però quello mi ha permesso di girare mondo, di imparare l’inglese, di vedere cose nuove e di conoscere persone nuove ed è stata comunque un’opportunità quindi. Le cose non succedono perché uno ha comunque l’idea di provare cose nuove. La notorietà ha un prezzo, soprattutto a quel livello lì”.

Milan: Paolo Maldini e Giorgio Furlani
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